Morte Borsellino, nuove rivelazioni
Emergono nuovi dettagli sull'eccidio del 1992 in cui vennero uccisi il giudice Paolo Borsellino e la scorta. "Fui io a rubare la 126 usata come autobomba per la strage di via D'Amelio. A commissionarmi il furto furono i fratelli Graviano", è una delle rivelazioni fatte ai magistrati dall'aspirante pentito Gaspare Spatuzza, killer del gruppo di fuoco dei Graviano, boss di Brancaccio, vicino al capomafia Leoluca Bagarella.
Il sicario che ha sulle spalle una quarantina di delitti tra cui quello di don Pino Puglisi non è mai stato indagato per l'agguato a Borsellino. Spatuzza, che da 4 mesi rende dichiarazioni ai pm delle procure di Palermo e Caltanissetta, non è stato ancora ammesso al programma di protezione. I magistrati ne stanno valutando l'attendibilità soprattutto alla luce delle contraddizioni tra la sua ricostruzione della strage e quella del pentito Vincenzo Scarantino.
Sui racconti di quest'ultimo poggia la verità giudiziaria sancita dal primo dei tre processi celebrati su via D'Amelio. Scarantino, la cui collaborazione è stata caratterizzata da alterne fasi e ritrattazioni, ha sempre sostenuto di avere incaricato del furto dell'auto, su input del cognato Salvatore Profeta, due balordi: un tossicodipendente a cui vendeva la droga, Salvatore Candura, e Luciano Valenti.
Emergono nuovi dettagli sull'eccidio del 1992 in cui vennero uccisi il giudice Paolo Borsellino e la scorta. "Fui io a rubare la 126 usata come autobomba per la strage di via D'Amelio. A commissionarmi il furto furono i fratelli Graviano", è una delle rivelazioni fatte ai magistrati dall'aspirante pentito Gaspare Spatuzza, killer del gruppo di fuoco dei Graviano, boss di Brancaccio, vicino al capomafia Leoluca Bagarella.
Il sicario che ha sulle spalle una quarantina di delitti tra cui quello di don Pino Puglisi non è mai stato indagato per l'agguato a Borsellino. Spatuzza, che da 4 mesi rende dichiarazioni ai pm delle procure di Palermo e Caltanissetta, non è stato ancora ammesso al programma di protezione. I magistrati ne stanno valutando l'attendibilità soprattutto alla luce delle contraddizioni tra la sua ricostruzione della strage e quella del pentito Vincenzo Scarantino.
Sui racconti di quest'ultimo poggia la verità giudiziaria sancita dal primo dei tre processi celebrati su via D'Amelio. Scarantino, la cui collaborazione è stata caratterizzata da alterne fasi e ritrattazioni, ha sempre sostenuto di avere incaricato del furto dell'auto, su input del cognato Salvatore Profeta, due balordi: un tossicodipendente a cui vendeva la droga, Salvatore Candura, e Luciano Valenti.
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